Pierre Seel, l’orologio e la candela

17 maggio 2009
Giornata mondiale contro l’omofobia

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Pierre Seel nasce ad Haguenau, una città della francese Alsazia, troppo, troppo vicina alla Germania, il 16 agosto del 1923. La sua è una tranquilla famiglia cattolica. Nessuno ha mai sentito parlare di lui, fino al 1982.
Gli uomini come Pierre Seel devono vivere così. Ci si nasconde, si tace. Si vive a verità condizionata. Finché un giorno accade qualcosa.
“Qualcosa” fu, per Pierre Seel, sentire il suo vescovo, il vescovo di Strasburgo, pronunciare una frase che lo consegnava, con tutta la porpora, l’anello e il pastorale, agli annali della storia della vergogna: “gli omosessuali sono dei malati”, scandì il vescovo Elchinger in una imprecisata mattina, o pomeriggio, o sera di esatta compiaciuta idiozia.
Allora non ci si può più nascondere, forse questo ha pensato Pierre Seel.
Allora arriva il momento del grido, composto certo, ma che si senta.
Nel 1982 esce nelle librerie francesi l’autobiografia “Io, Pierre Seel. Deportato omosessuale”, subito tradotta in tedesco e in inglese con il significativo sottotitolo “La liberazione era per gli altri.”

La storia di Pierre Seel incomincia da un orologio rubato.
È il 1939, Pierre ha 16 anni. Denuncia il furto. Dove è avvenuto il fatto? Chiede il commissario. Pierre risponde.
Non possiamo esserne certi, ma non è difficile ipotizzare una smorfia  nel volto dell’uomo di legge. Il parco dove l’orologio si perde, dove il tempo si ferma, è noto in città come luogo d’incontro omosessuale. L’uomo di legge deve fare il suo dovere. E il nome di Pierre entra in uno schedario. La burocrazia, questa temibile sorellastra del destino.
La Francia è invasa, l’Alsazia è troppo, troppo vicina alla Germania nazista.
Pierre aderisce alla Resistenza.
Non passano che pochi mesi. Nel 1940, a 17 anni, Pierre è convocato dalla Gestapo. Chissà se qualcuno ha mai ringraziato il commissario per il suo incontenibile zelo.
Pierre, per paura di ritorsioni sulla sua famiglia, si reca al posto di polizia. Viene arrestato, interrogato e torturato, per due settimane:

“Sulle prime pensammo di poter sopportare le violenze, ma in seguito divenne impossibile. La macchina della violenza ebbe una accelerazione. Urtati dalla nostra resistenza, le SS hanno cominciato a strappare le unghie ad alcuni prigionieri. Furiosi hanno divelto le assi su cui ci avevano costretto a stare in ginocchio e le hanno usate per stuprarci. Le budella  straziate. Il sangue è sprizzato dappertutto. Nelle orecchie sento ancora quei gemiti e quelle urla di dolore.” [pp. 25-26]

Il 13 maggio del 1941, Pierre Seel e i suoi compagni sono deportati e internati nel campo di concentramento di Schirmek, a 30 chilometri da Strasburgo.

“Privati dei nostri vestiti sporchi, ci furono date le uniformi del campo: camicie simili a quelle di forza e pantaloni di tessuto ruvidissimo. Ho visto un piccolo, misterioso rettangolino blu sulla mia camicia e sul berretto. Era parte di un indecifrabile codice di prigionia conosciuto solo dai nostri carcerieri. Secondo alcuni documenti, che solo alla fine ho potuto controllare, ‘blu’ stava per ‘cattolico’ o ‘asociale.’ In questo campo blu stava anche per omosessuale.” [pp. 29-30]

L’orrore.
L’orrore è il paradosso che consente ad un orologio fermo di continuare ad avanzare, meccanico, nel suo insostenibile pulsare. L’orrore dell’ingranaggio che non si ferma, della macchina del male che non sa saziarsi del peggio.

“Intanto passavano giorni, settimane, mesi. Ho trascorso sei mesi, dal maggio al novembre del 1941, in un luogo dove l’orrore e la barbarie erano legge. Ma non ho ancora descritto la prova peggiore che ho subito. E’ accaduta durante le prime settimane al campo e ha contribuito più di qualsiasi altra cosa a fare di me un’ombra silenziosa, obbediente fra le altre ombre.
“Un giorno gli altoparlanti ci ordinarono di presentarci immediatamente all’appello. Urla e grida ci spingevano là senza indugi. Circondati dalle SS, abbiamo dovuto formare un quadrato e restare sull’attenti, come facevamo la mattina per l’appello. Il comandante è arrivato con il suo intero staff. Ho pensato che stesse per picchiarci ancora una volta con la sua fede cieca nel Reich, accompagnando il tutto con la solita serie di comandi, insulti e minacce – emulando l’infame atteggiamento del suo capo, Adolf Hitler. Ma la prova in effetti era peggiore: un’esecuzione.
“Due uomini delle SS hanno portato un giovane al centro del quadrato. Inorridito, ho riconosciuto Jo, il ragazzo che amavo, appena diciottenne. Non l’avevo ancora incontrato al campo. Era arrivato prima o dopo di me? Non ci eravamo visti nei giorni che avevano preceduto la mia consegna alla Gestapo.
“Ero gelato dal terrore. Avevo pregato perché non fosse nelle loro liste, sfuggito alle retate, risparmiato dalle loro umiliazioni. E invece era lì di fronte ai miei occhi impotenti, colmi di lacrime. Diversamente da me, non aveva consegnato lettere pericolose, affisso manifesti o firmato dichiarazioni. E tuttavia era stato catturato e adesso stava per morire. Cosa era accaduto? Di cosa lo stavano accusando quei mostri? Nella mia angoscia ho dimenticato completamente la motivazione della sentenza di morte.
“Gli altoparlanti trasmettevano musica classica a volume molto alto mentre le SS gli strappavano i vestiti di dosso lasciandolo nudo e gli ficcavano un secchio in testa. Poi gli hanno aizzato contro i loro feroci Pastori Tedeschi: i cani lo hanno azzannato all’inguine e tra le cosce, e lo hanno sbranato proprio lì di fronte a noi. Le sue grida di dolore erano distorte e amplificate dal secchio sulla testa. Ho sentito il mio corpo irrigidito vacillare, gli occhi sbarrati dall’orrore, le lacrime mi correvano giù irrefrenabili, ho pregato perché la sua potesse essere una morte rapida.
“Da allora è accaduto spesso che mi sia svegliato urlando nel cuore della notte. Per cinquanta anni quella scena è passata e ripassata continuamente nella mia mente.
Non dimenticherò mai il barbaro assassinio del mio amore – davanti ai miei occhi, davanti ai nostri occhi, perché lì c’erano centinaia di testimoni. Perché stanno ancora zitti oggi? Sono tutti morti? E’ vero che eravamo fra i più giovani del campo e che è passato molto tempo da quei giorni. Ma sospetto che alcuni preferiscano tacere per sempre, impauriti dal rivangare i ricordi, quell’episodio tra i tanti altri. Quanto a me, dopo decenni di silenzio mi sono deciso a parlare, accusare, testimoniare.”
[pp. 42-44]

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Però. Però ogni deserto possiede miraggi, ogni abisso una feritoia a cui aggrappare un tentativo di sopravvivenza. Si deve riuscire a tornare, fosse anche solo per conservare in vita, dentro di sé, la fiamma viva di una memoria:

“L’autunno aveva preso il posto dell’estate. La foresta aveva i colori del fuoco intorno a noi. Oltre il filo spinato la natura – potevamo vederlo – sfoggiava generosamente la propria bellezza.  Spesso, mentre fissavo il Vosages, che stava cominciando a diventare bianco per la neve, desideravo che qualcosa accadesse – qualsiasi cosa, non importava quanto terribile, a patto che mettesse fine alla nostra routine di avvilimento e a questo apparato di abusi.
“Qualche volta quando la nebbia mattutina si dissolveva guardavo, insieme agli altri, una statua della Vergine in piedi su una delle torri del castello nella valle, dal lato della montagna. Lo sguardo di diversi prigionieri correva in quella direzione. Non dicevamo nulla, ma so quello che passava per la mia mente, e, senza dubbio, anche in quella dei miei compagni: la sola cosa che avesse ancora senso – tornare a casa, per ritrovare le cose amate, dormire nei nostri letti, nelle nostre stanze. Tornare a casa.”
[pp. 45-46]

Non ancora. Trasferito in vari campi di concentramento, Pierre è infine arruolato a forza nell’esercito tedesco: in quanto alsaziano parla correntemente sia il tedesco che il francese. Combatte sul fronte russo. L’orologio fermo non sa fermarsi.
Infine, arriva la Liberazione.
Chiamiamola così, anche se Pierre non si libera della vergogna che il mondo impone, anche se per decenni non riesce a raccontare i motivi reali della sua deportazione, il meccanismo inceppato che lo ha condotto all’inferno del lager.
Pierre, dopo la Liberazione, tace. Si sposa, ha tre figli.
Poi succede “qualcosa”.
Succede l’abbaiare di un nuovo cane, succede che la rabbia non è più contenibile.
E Pierre scrive.
E poi parla, racconta, concede interviste. In una battaglia lunga, per riuscire infine ad ottenere il riconoscimento di deportato omosessuale dallo stato francese.
Dopo anni di dolore silenzioso, dopo gli insulti di un vescovo, essere riconosciuto vittima dell’Olocausto non gli basta più.
Il silenzio non è più sopportabile, se le associazioni di ex-deportati e di partigiani rifiutano di ammettere gli esponenti del movimento di liberazione omosessuale alle cerimonie in memoria delle vittime del nazismo. Se nei giorni della memoria le corone di fiori portate dagli omosessuali vengono distrutte.
Pierre allora parla ancora, racconta, concede interviste. Insiste.
È grazie soprattutto alla sua testimonianza se oggi in Francia gli omosessuali, gli ex deportati e i partigiani ricordano insieme l’orrore.

Pierre Seel è morto a Tolosa il 25 novembre 2005.

“Quando sono in preda all’ira prendo il cappello e la giacca e cammino spavaldo per le strade. Immagino di camminare per cimiteri che non esistono, luoghi di riposo di tutti i morti che turbano la coscienza dei vivi. E mi pare di urlare. Quando accadrà finalmente di veder riconosciuto pubblicamente l’orrore della deportazione Nazista degli omosessuali? Nel mio condominio e nel mio quartiere molta gente mi saluta, gentilmente mi ascoltano e mi chiedono a che punto è il mio caso. Sono grato ed apprezzo il loro appoggio. Ma cosa posso dir loro?
“Quando finisco di vagabondare torno a casa. Quindi accendo la candela che arde continuamente nella mia cucina quando sono solo. Quella fiamma è in memoria di Jo.”
[ p. 140]

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AM, da notizie web.
I brani dell’autobiografia (tradotti da Marina La Farina) sono tratti da qui.

 

* * *

[originariamente pubblicato nel blog “Il teatro di Sisifo”,
sulla piattaforma Splinder]

* * *

 
 
 
 
 
 
 
 
 

Pubblicato il 17/05/2009 su Articoli, per così dire, Con parole d'altri, Con parole mie, SeelPierre. Aggiungi ai preferiti il collegamento . 21 commenti.

  1. l’aria è pesante, boccata d’ossigeno per pochi, per poco, questo tuo intervento…

    M.

  2. PannychisXI

    A questo post potevo rispondere solo a modo mio, nella mia casa con il lampadario.
    Pizia

  3. alessandromelis

    caro M.
    non mi rassegno.
    a volte, almeno, non mi rassegno.
    a stare zitto, perchè tanto non serve. a chiudere la porta. a starmene nel buio. non si può.
    sono tempi di orrore. di minoranze schiacciate, violentate, respinte. di “orribile varietà di superbie” ben chiaramente visibili nel volto delle maggioranze.
    ci sono toccati tempi d’orrore. non mi rassegno.
    a volte.

    grazie del tuo passaggio, sempre graditissimo.
    ti abbraccio.

    * * *

    cara Pannychis,
    sono stato nella casa del lampadario.
    a volte lo strazio può essere consolante. se si rabbrividisce insieme.

    grazie dell’ospitalità. che ricambio, invitando tutti i miei (cinque?) lettori a leggere il tuo post L’omertà non è in campana.
    a dopo,
    a.

  4. biancabalena

    A che punto sarà il “caso” di quest’uomo, oggi? Cosa risponderebbe ai condomini? Temo che non potrebbe che mordersi le labbra.
    Grazie per avermi raccontato l’ennesima storia che non avrei voluto conoscere, e per la bella scrittura che non mitiga l’orrore, anzi, l’avvicina.

    sabrina

  5. alessandromelis

    cara Sabrina,
    grazie. del tuo passaggio qui (credo suggerito dal lampadario viola che pende storto nell’antro di una Pizia…) e delle tue esatte parole: “l’ennesima storia che non avrei voluto conoscere”.

    il “caso” non è a buon punto. sono tempi, i nostri, in cui pare che l’assurdo sia esondato dagli interstizi in cui normalmente si lascia solo intravvedere, e che dilaghi ovunque.
    e noi siamo impotenti a sopportare. leggere la storia di Pierre Seel mi ha straziato, eppure non potevo tacerla.
    Ma sono felice che questa storia irraccontabile ci abbia fatti incontrare, seppure nello sconforto.

    a presto,
    a.

  6. scriptorhumilis

    Grazie ad Alessandro per aver riportato questa storia cruda, fatta di barbarie straordinaria applicata nei confronti di un diverso, dei diversi.E’ comunque la conclusione racconta d una battaglia di emancipazione.

  7. GinoDiCostanzo

    Grande post, grande. Io provo a rubartelo e a ripubblicarlo da me, se posso, citando la fonte, naturalmente. Mi piace fare da cassa di risonanza per tutte le cose belle che leggo sulla rete.
    Inoltre, se posso permettermi, con pacatezza e umiltà, vorrei dire a Scriptorhumilis, che le parole pesano, anche se sono dette a fin di bene ed in buona fede, perché è con le parole più “adatte” che la finta maggioranza che ci governa ha narcotizzato i cervelli: vorrei invitare tutti, a partire da me stesso, a non definire più gli omosessuali come “diversi”. Personalmente non li chiamerei nemmeno “omosessuali”, ma è la discriminazione ancora presente che ce lo impone. Nessun essere umano è realmente diverso da un altro, le diversità sono altre. Abituiamoci a pensarlo modificando il nostro linguaggio, che modificherà il pensiero. Un caro saluto.
    … io rubo, eh?…

  8. GinoDiCostanzo

    Ahahah non mi ero accorto che non si potesse fare il copiaincolla, vabbè, fa nulla. Se puoi e se vuoi mandami il testo, la mia mail è pubblica: onig1@libero.it
    ciao

  9. alessandromelis

    caro scriptorhumils,
    grazie della tua visita. l’ho già scritto, ma vale ripeterlo: sono tempi duri per le minoranze. “la maggioranza sta, come una malattia, come un’abitudine.”
    a presto,
    a.

    caro Gino,
    ti ringrazio, di ciò che scrivi, e dell’ospitalità.
    condivido ciò che dici sull’importanza delle parole (anche se so, perchè lo conosco bene, che scriptor intendeva “diversità” come valore, come si dice “biodiversità” per intendere ricchezza).

    Cambiare il linguaggio significa cambiare la forma del pensiero. Qualche giorno fa, ho letto una intelligente proposta, riguardo alla parola “omosessualità”: essa, si scriveva, è parola creata e pensata per attivare solo l’aspetto fisico dell’immaginario amoroso, negando così – quasi subliminalmente – tutte le altre dimensioni del rapporto sentimentale tra le persone.
    meglio sarebbe, questa era la proposta, dire “omoaffettività”. Mi pare molto sensato. Molto da “resistenti” del linguaggio.
    A presto,
    a.

  10. GinoDiCostanzo

    Bella ‘sta cosa di “omoaffettività”, questa me la segno e alla prima occasione la userò.
    Ciao

  11. biancabalena

    Mi permetto di dire che omoaffettivi lo siamo un po’ tutti, no? Io provo grande affetto per qualche amica, affetto anche fisico, mi piace abbracciarle, mi piace guardarle, mi piace il loro profumo. Poi però non provo desiderio sessuale nei loro confronti, non le sceglierei come patner sessuali. Per il resto potrei conviverci, crescerci i figli, solo il sesso andrei a cercarlo altrove. Alla fine credo che, ci piaccia o no, la differenza stia solo lì.

    Le parole sono importanti, è vero, ma non sono vitali. I sordomuti non hanno bisogno di parole per comunicare affetto o rabbia, o disprezzo. E’ un estremo lo so.
    D’altra parte, sono sicura di aver sentito dire “andiamo, terrone!” con grande affetto e complicità, e “diversamente abile” con la freddezza del disinteresse più totale.
    Ma forse sono andata fuori tema.
    Sono anch’io lieta che il lampadario viola mi abbia portata qui.

  12. frontespizio

    La storia della disumanità è entrata nei luoghi comuni e non riusciamo a dare senso e valore alle cose.
    Una lettura importante e grazie a Voi.
    Ciao Michele.

  13. alessandromelis

    cara Sabrina,
    sì, condivido (in parte) ciò che hai scritto. io stesso, subito dopo aver scritto, ieri, mi sono detto: ma che fai? ma non eri tu quello che detesta sentire gli eufemismi, gli arabeschi e i bizantinismi del politicamente corretto?
    e quindi forse hai ragione tu.

    il problema è, in questa specifica circostanza, che, nell’immaginario corrente, l’omosessualità è per lo più ridotta solo alla carne, completamente depotenziata di tutta la sua complessità affettiva.
    forse, almeno in questo caso, le parole potrebbero aiutare a cambiare un poco la forma del pensiero.
    forse, anche se non ne sono del tutto convinto.

    ti ringrazio tanto,
    a.

    caro, caro Michele Frontespizio!!!
    che bello avere qui il libraio delle meraviglie…
    Anche questa è autoterapia, Michele, leggere e straziarsi, per non abituarsi all’orrore. perchè mai riesca a diventare comune. e perchè sempre ci indigni.
    Grazie, e un abbraccio forte,
    a.

  14. biancabalena

    Sì, il discorso sulla lingua è decisamente complicato. Per esempio, persone che stimo sentono la necessità di una lingua declinata secondo il genere, sessualizzata insomma. Una conoscente vorrebbe essere un’editrice, e non un editore, ed è convincente quando dice che il termine “ministra” non è più ridicolo di “ministro”, e se ci suona strano è perchè storicamente questo ruolo era precluso alle donne, perchè non siamo abituati a sentirlo, insomma. Mi ricorda che anche il termine “infermiere” non è esistito per diversi secoli, ma che a nessun maschio è mai passato per la testa di farsi chiamare “infermiera uomo”.
    Tutto vero e legittimo, però non riesco a farmi appassionare da questa battaglia. E’ un po’, per me, come discutere del colore di una casa costruita con la sabbia.

    D’altro canto, credere che il linguaggio possa essere motore di un cambiamento profondo, non dico che non mi piacerebbe. Chissà.

  15. alessandromelis

    cara Sabrina,
    temo che il discorso ci porterebbe (ci porterà?) lontano.
    E’ vero che la casa è costruita con la sabbia, e il colore – in sè – non nasconde il pericolo del crollo. Ma la scelta del colore non è così inutile, se serve a mostrarne la fragilità, e a trovare soluzioni per consolidarla.
    Ma forse hai ragione tu, più che una battaglia è un’illusione di battaglia, visto che nei nostri mezzi di comunicazione più che il bisturi va di moda l’ascia, o il machete…

    grazie del tuo passaggio!

  16. arrivo imbeccato dal link della pizia-pannychis.
    l’orrore dell’ingranaggio c’è tutto.
    “nella mia angoscia ho dimenticato completamente la motivazione della sentenza di morte” lascia il segno, come a sancire (alla luce dell’effetto) l’impossibilità di fissare nella memoria una qualsiasi relazione sensata di causa-effetto.
    la mente umana che rinuncia ad interpretare la realtà, subendone il non-senso.
    d’altro canto non so se esiste una via d’uscita, ché il silenzio – è vero – non è più sopportabile, ma d’altro canto l’incomunicabilità muove il mondo…
    eniuei, nello specifico, sarà che essendo nano vedo le cose dal basso in alto (quindi capovolte), ma l’omosessualità non può che essere un *valore aggiunto*, quando penso a una persona.

  17. alessandromelis

    caro Altrabetta/Malos che mi fai morire di gioia di là, sotto il lampadario, figurati quanto sono felice di leggerti anche di qua, all’ombra della pietra.

    l’ingranaggio rotto è uno dei (tanti) interstizi attraverso cui l’assurdo si lascia vedere chiaro, di là dalla consolante illusione di un ordine sensato r(e)azionale. (hihi)
    tra silenzio e incomunicabilità a volte si dà solo l’opportunità del grido. che poi è come dire, ancora, silenzio o, ancora, incomunicabilità.

    comoonkwe, ci resta sempre la ricchezza (non sempre consolante. a volte sì. non sempre) di poter guardare l’assurdo da punti di vista “altri”. tu capovolto, io rotolante.

    a presto,
    Sisifo (like a rolling stone)

  18. Mi trovo unita in un abbraccio idealmente muto con Gino(ssss…sono marle ) perchè in effetti le parole diventano serpenti ed avvolgono nelle loro spire in una ecatombe definitiva.E’ molto vero:il termine Omo per definire una Categoria è ridicolo oltre che riduttivo.Se solo riuscissimo a liberarci di queste strutture verbali ed uscirne definitivamente..Così come dalla tentazione voyieristica di sbirciare nelle attitudini erotiche e-o sessuali degli altri! Ma che senso ha? lL’ amore è amore sempre. Così come il disamore e l’ odio.Quello delle Etichette improprie, dei dannati Lager, delle oscene rappresentazioni del sesso in Palazzi nostrani dove la carne è solo da BASSA MACELLERIA.Non più MOMENTO SUBLIME DI INCONTRI UGUALI E DIVERSI.marle

  19. Grazie Alessandro per aver ricordato P.SEEL in modo così crudo e straziante.Hai avuto un grande coraggio.Certe storie non possono venire edulcorate.Abbiamo fin troppe censure ed é ora che ci liberiamo dei bavagli che soffocano le nostre voci e le verità taciute.Sarebbe un ritorno ai tempi delle camicie nere; quando ai “piccoli ed alle piccole italiane IN DIVISA” venivano imposti quegli assurdi libri di testo alle Scuole
    elementari.Ho visto quelli dei miei genitori e dei miei zii ed ho avuto i conati..P.SEEL appartiene alla nostra STORIA e va raccontato come tu hai fatto:BRAVO!SIAMO CON TE.Z.MARLE

  20. L’aria é pesante;irrespirabile e ci porta di tutto nel naso e nei polmoni.Anche gli ignoti virus.Ma chi ti dice caro-cara (poco importa)M. che sono in pochi a recepire e per poco?Sento pessimismo e scoramento nelle tue parole.Mi permetto di dirti NO!!!Mai rassegnati a queste volgari transenne dell’indifferenza;non parliamo poi delle censure.Coraggio ed un saluto,non romano!Marle

  21. alessandromelis

    cara zMarle,
    M, che sta per Michele, è un caro amico che di rabbia in corpo ne ha molta, ma che ogni tanto (come me, del resto) intrasente la vanità dello sforzo. ma solo per poco, ti assicuro. poi torna a combattere, a testa bassa.

    è che ogni tanto, in mezzo a tutto questo orrore, sembra che le persone con un poco di senno superstite siano sempre meno. come una specie di risicata carboneria. ma, in fondo, mi dico in quei momenti, sono sempre le minoranze creative che costruiscono quel disegno incerto e pochissimo sensato che chiamiamo storia. e in cui, a volte, capita di trovare il proprio minuscolo posto.
    Pierre Seel, malgrado tutto, lo ha trovato. E non è neppure tanto piccolo.

    Grazie,
    a.

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