La follia dell’amarsi tra gli uomini

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[Prologo]

Perché mai Antonio Turnu ha chiesto a me, un teatrante, di presentare il suo ultimo libro di poesie, La voce dell’eterno silenzio. Questa domanda mi tarlava il cervello, nei giorni seguenti al nostro incontro. Ma sei sicuro, ho chiesto. Sì, mi ha risposto. E non c’è stato altro da dire.
Perché Antonio è un amico di parola. Non solo nel senso che dice ciò che fa e fa ciò che dice. È amico di parola perché nella parola è la nostra amicizia, nell’amore per questi piccoli giocattoli di lettere, scritte o pronunciate sopra un palcoscenico.
E a un amico di parola non si dice no.
No è la parola più bella del mondo, secondo Saramago.
Anche sì, è una parola bella, non me ne voglia il maestro.
Sì, Antonio, sì.
Leggerò il libro, per cercare parole che lo raccontino.

Lentamente comprendo il senso possibile di quella sua richiesta.
Questo libro me lo posso leggere come un monologo, che starebbe perfettamente a suo agio sopra le quattro assi di un palcoscenico. Nudo, senza scena, e nudo l’attore stesso che dovesse pronunciarlo. Luce bianca sugli occhi, e solo uno sguardo conficcato nei volti immobili e muti degli spettatori, laggiù, in sala, a cercare di graffiar loro le corde più stridenti del dolore.

C’è nei monologhi un andare profondamente contro la natura.
Non c’è realismo possibile, nel parlare da soli, che è dei pazzi o, appunto, dei poeti.
Non c’è realismo, nel mostrare, dopo che un evento è accaduto, l’attore solitario in scena, a dire, a dirsi gli effetti dell’evento. Non è realistico, questo lo capisce anche il più imbranato dei registi.
Eppure proprio in quella mancanza di realismo i drammaturghi di ogni tempo hanno raccolto le loro parole più potenti. Un personaggio, davanti alla platea muta e per lui inesistente, mette le dita nella plastilina molle del suo cervello, scava arrovellandosi, mastica amaro, cerca il modo di portare avanti una storia, la sua.
A loro, a quegli attori irrealistici, i drammaturghi affidano spesso il lato spaventoso della realtà.
Amleto, che parla con il teschio di Yorick.
Il profondo irrealismo dei monologhi.
Un evento accade, e il personaggio, da solo, parla.
Domanda, spesso. Domanda a se stesso.

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[Atto primo: La morte, il mistero, la battaglia]

Sì, questo libro l’ho letto come fosse un monologo di scena, che inizia con la più irrisolta delle domande. La domanda tremenda.
L’evento è accaduto, ed è sigillato dentro una dedica limpida come lo sono sempre i commiati.
Quando una vita cara si è chiusa, resta la pietra in gola di una morte che non è mai credibile fino in fondo. Una pietra che non si riesce ad ingoiare.
Lì è il nostro assurdo: essere fatti per la vita, ed essere fatti per la morte.

“Ora che non ci sei / è incredibile la tua assenza”

Mistero, enigma, sono dunque le prime parole di questo sofferto assolo.
L’assenza è “incredibile”; la vita, una “bolla iridata” che “esplode / gocce d’acqua e sapone”
Morte e vita se ne camminano scandalosamente insieme, come nell’andare e venire dell’uva e del grano, il nascere e l’appassire della natura.
Ma è solo una metafora. E un’immagine non è ancora una vera possibilità di salvezza.
Maledette parole, verrebbe da dire, che inganno pretendete di allestirci.
Noi siamo fatti per la vendemmia e per la mietitura, questo è certo, ma a cosa serve, questa facilissima coscienza della ragione. Il sentimento del lutto è lì, tutto intero, e deve essere accolto, masticato. E una pietra è tanto dura da frantumare, a furia di poveri, poveri denti..

È battaglia, per questo nudo personaggio in palcoscenico. Battaglia contro il dubbio, contro le risposte troppo facili, contro la scomparsa del senso.

“Ogni morte / è morte occulta”
“Sello il mio corpo / do briglia alla mente / e continuo a combattere / portandoti spada nel cuore”

È battaglia. La fede fa le sue proposte, suggerisce risposte. Ma è battaglia.

“Il limite / della mia comprensione perdona”
“Insegnaci a capire / che ogni cosa serve / a quello che verrà”
“Mistero involuto”
“chiedermi cosa Dio mi sta dicendo / … /  … dove / mi sta conducendo / … / perché mi trascina a lui legato.
“possa l’intero disegno / avere un senso / visto dall’alto / nella sua luce / a noi mortali nascosta”
“resto / ascoltando parole di rimbalzo / tra verità e dubbio / … / con la bocca sospesa nel mistero aperta”

È battaglia. Dentro il campo bianco, pieno di sabbia e di sole, di una fede scarna, dubbiosa, senza risposte.
È lutto, masticato.

“Saliva masticata / … / nell’effervescenza di un mistero”

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[Atto secondo: il silenzio e la parola]

E poi arriva, una prima risposta.
Il silenzio. Il nudo, bianchissimo lenzuolo del silenzio.
Il silenzio quieto, dopo il chiasso disarmonico delle domande.

“Chiudere le palpebre / all’interno rivolgere lo sguardo / e lasciarsi scorrere la vita / in un lago d’ombre”
“Il silenzio /… in ascolto / delle segrete confidenze in tormento”
“Il silenzio di chi ha udito / guglie di vuoto nell’arso deserto”
“Un silenzio che apra di gestazione”
“Il silenzio del deserto / [che] sgretola ogni convinzione”

Eccola, l’immagine nuda, durissima, del lutto.
Il silenzioso deserto che si attraversa, soli.
Un deserto che è sabbia lenta.

Sospeso.
Le piccole orme sulle dune.
Sospeso.
Il sole zenitale.
Sospeso.

L’attore è fermo, nudo, immobile davanti al suo pubblico.
Non c’è neppure, il pubblico. I buoni attori riescono a credere di essere davvero soli.
I buoni attori sono ubriachi che dimenticano.
I buoni attori sanno vedere mongolfiere sul tetto del teatro, strapiombi sul boccascena, mari a perdita d’occhio nei pochi metri della sala. Fiori che nascono su prati, o su letami, immaginari.
E a volte, dalle quattro assi del palcoscenico può germogliare davvero qualcosa.
Uno scricchiolio, un suono debole ma insistito, una possibilità di appiglio.

Per questo personaggio che oggi, qui, è in scena, l’appiglio è la parola.

Sono insistenti voci nel silenzio, le parole.
Le parole, le proprie e quelle degli altri.

“Dopo lo smarrimento / … / ci si ritrova sempre / in qualche parola / da altri inventata / dove fra lettere / l’immaginazione vola e la speranza / accanto alla follia”

“parole / dalla bocca frantumate / … / sospese evoluzioni / di lettere e immagini nell’aria / … / il cuore resta / … / sospeso / … / lettere e immagini / sconosciute incongruenti / insistenti voci nel silenzio.”

“Della parola il silenzio / non è la fine / piuttosto della consegna è l’inizio / nel transitare / della vecchia esperienza donata / agli eventi di una vita nuova / in un brulichio di germogli / di lettere e suoni / dalla muta sabbia trasformati”

Che sia davvero lì, la via? Nella parola, nel potere pirotecnico dell’immaginazione, nel sognare mai vano della speranza, nei colori multiformi della follia?
È nelle parole, forse, la possibilità di masticare il lutto.
Di uscire dal labirinto dei ragionamenti, e trovare salvezza, nel candore di una piccola musicale successione di parole.

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[Atto terzo: la poesia]

Disperatamente, costruire.
Me lo vedo che si siede, l’attore. Con un sorriso d’infanzia vede sul palcoscenico la sabbia del deserto farsi spiaggia, toglie sandali, che non ha, dai piedi nudi. Si fa piccolo, forse ricorda persino paletta e secchiello.
Disperatamente, costruire.

“aggiungere al muro / il proprio mestolo di calce”

Si voltasse indietro, sul cammino percorso, questo attore non vedrebbe più deserto, forse, ma solo sconfinato camminare solitario, in cui “scompaiono miraggi condivisi”
e “danza leggera la poesia / nella distanza tra anima e parola”
“la poesia chiude il cerchio / in un vuoto pieno”

Costruire. Perché forse un mistero può sanarne un altro.
Forse il mistero della parola che risuona dentro una poesia può dare un’ipotesi di senso al mistero della morte, che invece se ne sta sempre, sconsideratamente, zitta.
Solo nella parola questo attore trova il riposo: e scopre che la distanza tra i vivi e i trapassati è  “un incolmabile strapiombo”, e lo vede, lì, sul boccascena, lo strapiombo “dove l’immaginazione si librerà / di vita in vita / valicando l’essere e il sentirsi lontano”

Eccolo laggiù, l’amore ritrovato.
Ancora una volta, immaginazione, speranza, follia.

[Epilogo: l’amore e il silenzio]

La follia dell’amarsi tra gli uomini.
L’amore, unica salvezza, nel non senso che resta insanato: amore “stremato” amore “disperato”
Amore, nella parola, ritrovato.
Forse sarà anche illusione, come tutto.
Ma questa è la forza degli attori. Sapere, e non sapere, contemporaneamente.
E “il… lamento infine tace”.

Quello che resta, è il silenzio dopo lo spettacolo.
Si lascia la scena ad altri attori.
E non c’è rimedio vero, al silenzio, eterno, del Regista.

 Alessandro Melis
Oristano, 3 maggio 2011

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[Le foto di Roberta Filippelli, Francesca Randi e Giusy Calia sono tratte dal libro]

 

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[originariamente pubblicato nel blog “Il teatro di Sisifo”,
sulla piattaforma Splinder]

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Pubblicato il 12/05/2011 su Con parole mie. Aggiungi ai preferiti il collegamento . 2 commenti.

  1. ilteatrodisisifo

    ciao Pizia, strano ma bello tornare in questo posto nuovo.
    Ti bacio.

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